Perugia e Leopardi (1981)

«È l’inizio – scrive Binni in una nota al testo nell’edizione 1984 della Tramontana a Porta Sole – di un mio saggio leopardiano uscito in un volume dell’Università per stranieri [di Perugia] in occasione del cinquantesimo anno della sua fondazione». Alle pagine iniziali del saggio, scelte da Binni per le sue implicazioni perugine, segue un’analisi della Ginestra che sarà sviluppata nel saggio del 1987 Pensiero e poesia nell’ultimo Leopardi (Leopardi. Scritti 1969-1997, vol. 3 delle Opere complete, Firenze, Il Ponte Editore, 2014). Il saggio pubblicato nel volume dell’Università per stranieri era ancora sostanzialmente una bozza di lavoro per il saggio del 1987, che costituirà la base di tre conferenze per gli studenti delle scuole secondarie, a Perugia, Terni e Città di Castello, organizzate dalla Regione Umbria e dai relativi Comuni.

Perugia e Leopardi

Mi è giunto graditissimo l’invito del Rettore dell’Università per stranieri, Ottavio Prosciutti, mio vecchio amico e compagno nella lotta antifascista e antinazista, a dare un contributo al volume in onore del cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Università per Stranieri di Perugia, cui io sono legato profondamente perché, nato a Perugia e vissutovi fino a diciott’anni e poi ritornatovi a vivere per lunghi periodi fino al 1948 (quando ho lasciato Perugia per intraprendere la mia attività di ordinario universitario di letteratura italiana a Genova, a Firenze, a Roma, dove tuttora vivo e insegno), Perugia è la città essenziale della mia lunga esperienza vitale e della mia stessa prospettiva umana, civile e critica (per me la città dove si vive una eccezionale tensione che ne sottende e aumenta la sua singolare bellezza e magnanimità, alta com’è sulla pianura e sui colli circostanti: come una laica Gerusalemme). E, se non vi conservo piú che la tomba di famiglia, al culmine del cimitero, che replica la struttura ascensionale della città, essa è per me sempre il luogo dei ricordi piú stimolanti, del richiamo alla mia piú vera natura cosí intrisa – non solo per ragioni di sangue: i Degli Azzi Vitelleschi di Perugia, i Barugi e Vitelleschi della vicina Foligno, ma, ripeto, per ragioni di congenialità profonda – di elementi che mi derivano dal suo stesso paesaggio scabro e montuoso, dalla sua struttura tettonica e architettonica impetuosa ed energica, dalla sua storia civile laica e ribelle, dalla sua tradizione culturale che, nella mia lontana adolescenza e gioventú, ritrovava ripresa nella fervida attività intellettuale di una élite di giovani e giovanissimi (al centro la grande figura di Aldo Capitini), nella sua lotta antifascista (affiatata non populisticamente con tanti eroici popolani perugini) fino alla Resistenza, e nelle ardite speranze e illusioni del dopoguerra, quando io lavorai a lungo alla ricostituzione del Partito socialista e rappresentai Perugia e l’Umbria come deputato all’Assemblea Costituente nel ’46-48.

Fra i molti luoghi di Perugia a me cari c’è anche, con forte spicco, l’Università per stranieri (nel suo bel palazzo settecentesco a fronte dell’Arco Etrusco e nelle pittoresche case ottocentesche, molte delle quali sono ora scomparse, nella piazza in salita, originalissima), da me prima frequentata sin da quando, adolescente, vi ascoltavo avidamente le conferenze di Borgese, Banfi, Caggese, poi a lungo (anche se con intervalli di vita militare in guerra e di attività politica a Roma) prima mia sede di insegnamento di lingua e letteratura italiana e, ancora dopo, piú volte rivisitata per conferenze che vi tenni sulla letteratura novecentesca, sul Settecento, su Foscolo, Carducci, Ariosto, Leopardi.

Ecco: proprio Leopardi fin dall’adolescenza fu qui a Perugia il poeta da me piú amato – per divenire poi, piú che uno dei poeti e scrittori piú esercitati da me nello studio critico, addirittura il poeta della mia vita, il maestro supremo della mia stessa prospettiva umana, morale, intellettuale, civile (anche se con l’ovvia aggregazione di altri maestri, da De Sanctis a Marx, a Trotzsky, alla Luxemburg, a Gramsci, a Sartre, in direzione piú particolarmente critica e sociale-politica, ma tutti riportati alla centrale lezione leopardiana), e allora collocavo sui luoghi della mia città e sui suoi paesaggi (prioritario assolutamente proprio quello che s’intravvede dalle finestre del palazzo dell’Università per stranieri e si apre intero dal balcone sublime di Porta Sole, il paesaggio piú aspro e selvaggio, montuoso, pur solcato da pieghe piú dolci e «idilliche» come monte Pecoraro o il colle di San Marino, ma dominato dalla linea energica e fratta dei monti di Gubbio sino al loro varco al cielo azzurro cosí intenso da assumere colori notturni) le poesie di quel grandissimo poeta, fra le quali, presto – in contrasto con la lunga mistificazione della sua poesia come poesia idillica e catartica –, presero spicco per me i suoi ultimi canti, i canti della passione vissuta ed esaltante dell’eroica persuasione, fino alla cima inaudita della Ginestra. Su quei canti qui a Perugia abbozzai un lavoro critico realizzato poi in un saggio discusso all’Università di Pisa con Attilio Momigliano nel ’34, per ritornarvi proprio in un corso tenuto nel 1945 qui all’Università per stranieri, da cui sarebbe nato il mio libro, La nuova poetica leopardiana, che, nel 1947, insieme al saggio di Cesare Luporini, Leopardi progressivo, apriva quella che è stata chiamata la «svolta» della critica leopardiana e che ruppe il grave e lungo fraintendimento critico della poesia leopardiana considerata solo come poesia «idillica» e mise in piena luce il fondo eroico ed energico di quella poesia connessa inseparabilmente a una morale non stoica, ma appunto eroica, e ad un pensiero fertile e autentico. Che, passato attraverso la lunga e tormentata fase del «sistema della natura e delle illusioni», approda ad un materialismo ateo e antiteleologico, moltiplicato dalla sua realizzazione poetica e interamente sviluppato nella suprema poesia della Ginestra, dove la posizione del grandissimo intellettuale-poeta raggiunge la sua conclusiva sfida al «secolo superbo e sciocco» e ad ogni credenza e speranza religiosa e spiritualistica, ad ogni prospettiva di perfettibilità e di trionfo della razza umana, mentre questo profondo pessimismo non conduce all’inerzia e al disimpegno, ma anzi comanda una doverosa e strenua lotta contro la natura e la società ingiusta e a favore di un’ardua nuova condizione di società libera e fraterna.

Come meglio poi sarebbe apparso attraverso studi di altri leopardisti (come soprattutto Sebastiano Timpanaro) e nella mia stessa interpretazione dell’articolato iter leopardiano consolidato nel libro del ’73, La protesta di Leopardi, piú volte ripreso in saggi e interventi successivi.

Per tutto ciò che ho detto circa la mia «passione» leopardiana, circa le origini «perugine» della mia interpretazione leopardiana e il suo stesso legame con un corso tenuto all’Università per stranieri, ho ritenuto di dover scegliere per questa occasione celebrativa della fondazione dell’Università per stranieri di Perugia uno scritto sul capolavoro leopardiano della Ginestra.